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Vecchia voglia di comunismo

Pubblicato da Andrea Papi in oltre le ideologie · 25/1/2017 16:59:00

Vecchia voglia di comunismo
Nell’annunciare che dal 18 al 22 gennaio a Roma ci sarebbe stata una conferenza internazionale sul comunismo, giovedì 12 gennaio il quotidiano Il manifesto ha pubblicato un inserto dal titolo I 100 anni che sconvolsero il mondo – dentro e oltre la presa del palazzo d’inverno.
Per chi nuota da sempre nelle acque agitate della sinistra, in particolare di quella estrema ed extraparlamentare, l’anno appena iniziato, il 2017, ha una particolare importanza perché segna la ricorrenza secolare della rivoluzione russa del 1917. È per questo che l’inserto s’intitola “i 100 anni…”. Proprio un secolo fa infatti, prima nel febbraio, quando fu detronizzato lo zar, poi nell’ottobre, quando ci fu la “presa del Palazzo d’Inverno”, ebbe luogo la rivoluzione che portò i bolscevichi al potere. Un potere che durò fino al fatidico 1989, noto come l’anno della caduta del muro di Berlino.
Quella rivoluzione fu molto importante e assunse una valenza simbolica di riscatto sociale che per alcuni ancora detiene. Gli anarchici, che vi presero parte con grande convinzione, furono poi decimati non appena s’insediò il potere bolscevico. Un potere che risultò spietato e represse nel sangue ogni opposizione e diversità di vedute. Attraverso una ferocissima dittatura, che si auto/spacciava come proletaria, ma che era soltanto del “partito-stato” che aveva preso il potere, il bolscevismo s’impose con grande violenza su e contro tutto e tutti, per poi inesorabilmente logorarsi in circa settant’anni di assolutismo politico fino all’estinzione. Una vera e propria implosione senza speranza, simbolicamente coincidente con la caduta del muro di Berlino.
La mia è chiaramente una visione da anarchico, che trova però una grandissima convalida con lo svolgersi avvenuto dei fatti. Gli anarchici, una volta estromessi dai soviet con la prepotenza della violenza del potere centrale, capirono e dissero che quella rivoluzione sarebbe stata un fallimento perché aveva abbracciato la via della tirannia gerarchica statuale e partitica, abbandonando quella della liberazione egualitaria e solidaristica. E così è stato.
Oggi, costretti ad ammettere il fallimento, non soltanto di quella rivoluzione, ma della dottrinaria via di transizione verso il comunismo, com’essi definivano la statualità dittatoriale che avevano imposto, i neo/comunisti, giustamente, continuano ad interrogarsi. Cercano di capire cos’è successo, come possono sostenere le loro convinzioni ancora oggi e quali siano le possibilità di riprendere quella lotta contro il “vittorioso e vincente” capitalismo, che in cuor loro non hanno mai abbandonato. Quel capitalismo che tutt’ora, secondo il loro giudizio, è pienamente in auge, ben vivo e vegeto. Il convegno/conferenza tenutosi a Roma e l’inserto del manifesto, provano a interrogarsi in tal senso proponendo una profonda riflessione a tutto campo.
Avendo letto l’inserto con molto interesse, pur non avendo partecipato al convegno, mi sento di dire al cune cose.
Inequivocabile la piena ammissione che fanno del fallimento, mentre da ogni parola trasuda la voglia di capire cosa sia effettivamente successo e quali errori siano stati commessi. In questa ricerca identifico un’autentica voglia di uscire dall’impasse che la sconfitta storica ha inflitto agli eredi di Marx e del marxismo che, con lodevole pervicacia, continuano a dimostrare un grande appetito di comunismo, ma soprattutto fede in esso.
 Ci sono però alcuni aspetti che mi lasciano perplesso, perché mi danno l’idea che non riescano ad uscire da certe impostazioni dottrinarie che, proprio per la rigidità che le distingue, incapsulano il pensiero in gabbie che obnubilano la vista sulle effettive dimensioni del reale, sia concreto che simbolico. Ci sono senz’altro la consapevolezza e l’ammissione che il mondo è cambiato e continua a cambiare profondamente. Ma la lettura del cambiamento è filtrata dai paradigmi ortodossi della dottrina, evidentemente considerata irrinunciabile, che però, proprio per questo, purtroppo ne vizia la comprensione.
Guardiamo per esempio al significato del tanto auspicato comunismo. Il comunismo è una visione di relazioni sociali e comunitarie caratterizzate dalla condivisione e dallo scambio reciproco e solidale, diventato un insieme di idee economiche, sociali e politiche, accomunate dalla prospettiva di una stratificazione sociale egualitaria, che presuppone la comunanza dei beni. Le tensioni e le idee di comunismo sono molto antiche e possiamo trovarne dei semi e degli aspetti fin dalle esperienze tribali pre-storiche. Le prime comunità cristiane, per esempio, si fondavano senz’altro su chiari presupposti comunistici.
L’impostazione che gli diede Marx caratterizza però il comunismo in senso smaccatamente economicista. La famosa formula con cui lo stigmatizzò, a ognuno secondo i suoi bisogni da ognuno secondo le sue possibilità, è molto chiara in tal senso. Tanto è vero che i suoi epigoni, nel momento in cui hanno tentato di applicarlo, lo hanno fatto attraverso regolamentazioni dall’alto, trasformandolo in pianificazioni economiche imposte. Visione e applicazione che senz’altro si sono dimostrate un modo per impoverirne senso e possibilità. Se non si chiarisce perciò che è stato un modo di ingabbiare, attraverso formule dottrinarie, una visione molto più ampia e ricca, non si fa altro che riproporre in modo aggiornato lo stesso incantesimo ideologico con cui il bolscevismo l’ha intrappolato.
Un altro aspetto che continua a riproporsi con ostinazione è il classismo dualistico quale base determinante della diseguaglianza economica. Dev’essere innanzitutto chiaro che le classi esistono. Classi e categorie sociali differenti esisteranno sempre fino a quando ci sarà chi ha di più e moltissimo contrapposto a chi ha poco o addirittura nulla. Una condizione socio/economica che continuerà a generare scontri e conflitti, anche cruenti, di varia maniera e intensità.
Ma il punto non è questo. Il punto è che il marxismo, nelle sue varie e differenti determinazioni, si fonda anche sull’assunzione ideologica di un dualismo classista antitetico, determinatore fondamentale di tutte le dinamiche socio-economiche, attorno a cui ruota l’insieme dei movimenti sociali. La classe sfruttata di riferimento, il proletariato dell’industria, in opposizione antitetica alla classe proprietaria, la borghesia capitalista, nella lettura marxista sono l’antitesi storica privilegiata che determinerà il movimento delle cose. Questo perché ritiene che il riferimento principe sia l’economia produttiva, considerata fondamento economico della società. La struttura della produzione industriale borghese impone dei rapporti di classe, sfruttati e sfruttatori, che determinano un conflitto strutturale irrisolvibile. In questo determinismo economico e storico, secondo il marxismo, sta il centro della lotta e tutto passa attraverso questo conflitto.
Ora è successo che la centralità economica, nel senso di luogo che determina e condiziona, si è spostata dal momento produttivo a quello finanziario, capace sempre di più di condizionare e determinare le scelte della produzione. Al contempo, i produttori sono sempre meno gli operai, sostituiti progressivamente da processi informatici e di automazione. Il luogo privilegiato della determinazione socio-economica non può più essere considerato quello della produzione industriale, in cui fra l’altro il conflitto di classe tende ad attenuarsi per la scomparsa progressiva della classe operaia (al posto degli operai le macchine e i computer).
 Di qui la decadenza de facto della visione classista, pilastro irrinunciabile dell’ermeneutica marxista. Invece mi sembra che i neo/comunisti, nelle loro riflessioni cerchino di leggere il nuovo e il cambiamento sempre attraverso la lente di un classismo classico, continuando ad annaspare nella ricerca dei nuovi proletari e della nuova borghesia. Forse perché non riescono a concepire il mondo senza quel paradigma che da senso alle basi della loro dottrina. Così identificano lo spostamento dal proletariato classico a quello “sociale”, parlano di borghesia finanziaria invece che di borghesia produttiva, come pure citano sempre meno le masse per parlare, spinozianamente, di moltitudini. Ma i termini hanno senso se collegati ai processi e agli intrecci di cui sono espressione. Se processi e intrecci cambiano di senso e collocazione socio-simbolica, si può anche continuare a chiamarli con le vecchie denominazioni, ma la portata e la direzione dell’analisi non possono essere più le stesse. Perde perciò di senso continuare a riproporre la stessa visione in un tentativo di aggiornamento che invece la stravolge e non interpreta più il reale in movimento.
Ciò che sta avvenendo, impoverimento progressivo dei più e aumento delle diseguaglianze, in massima parte non è più determinato in primis dallo sfruttamento nei luoghi di produzione industriale, ma soprattutto dalla speculazione. La spinta all’accumulo non è più tanto per aumentare il profitto, ma per dilatare a dismisura la rendita finanziaria. Lo sfruttamento e la sottomissione sono sempre di più nelle condizioni di vita cui ci costringono, da cui non riusciamo a prescindere, sempre meno nei luoghi delle produzioni industriali. Non ha più senso propugnare lotte perché la classe sottomessa prenda il potere (la lotta di classe), ma per l’autonomia esistenziale, per la libertà dal bisogno e dalle imposizioni.
Bisognerebbe perciò liberarsi delle dottrine e delle loro gabbie ideologiche, per cercare di capire bene come procede la spietatezza del dominio, in tutte le sue nuove forme, sociali politiche economiche e finanziarie. Dovremmo cercare di riproporre in forma aggiornata non ideologica un’emancipazione vera dallo stato di cose presente, come pure dal futuro che ci si prospetta. Il nostro intento dovrebbe essere quello di voler addivenire ad un’autentica condivisione sociale, mutuale e solidale, non meramente comunismo economico.
Smettiamola di tentare di riadattare la realtà a impostazioni ideologiche, ormai autoreferenziali, ritenute religiosamente eterne.
Andreapapi



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