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Sguardi antropologici e di costume

Recensioni e segnalazioni
Interpretazioni, rappresentazioni, manipolazioni, tanti e diversi modi di vedere, raffigurare, descrivere e imporre la realtà dell'essere umani e socialmente umani.
4 luglio 2017
Oltre il nulla dell’“italianità”


Le stupidità xenofobe e razziste che vi si oppongono esaltano, facendo un autogol, una legge come lo “ius soli”, che pure non è esentabile da critiche perché a tratti ambigua. Il problema non è la legge, innegabilmente deficitaria e in quanto tale non c’interessa. Come più o meno tutte le leggi, sempre approvate in seguito a squallidi compromessi di schieramenti e correnti partitiche, strada facendo si dimentica del valore di fondo per cui la si è proposta e si tenta di approvarla. Il problema vero è lo scontro culturale che ci sta dietro, tra una visione impregnata di un esclusivismo nazionalista che vorrebbe mettere alla porta tutti coloro che non sono “supposti” italiani, contrapposta ad un’altra che al contrario vorrebbe riuscire a regolamentare l’inclusione dei nuovi flussi migranti che stanno attraversando l’intero mondo, non solo l’italietta di casa nostra.
 In questo caso noi stiamo dalla parte di chi vorrebbe riuscire a dare avvio a forme d’inclusione solidaristiche. Al di là delle leggi proposte che vogliono regolamentare secondo ragion di stato e non c’interessano, soprattutto non ci convince e contrastiamo il nazionalismo sovranista avanzante, come pure l’affermazione identitaria di un’italianità, etnica o patriottica che sia, che fra l’altro non ha reali basi storiche se non costruite ad hoc. Se non altro perché siamo sempre più convinti che veramente “… nostra patria è il mondo intero …”, ogni intervento che in qualche modo rompa le catene delle frontiere nazionali non ci trova contrari.
L’ articolo Dall’arte e dalla cultura nasce il nostro ius soli di Tomaso Montanari, che propongo qui sotto, per me ha il grande merito di schiudere un varco intellettuale capace di aprire la mente a spazi di libertà e riconoscimento dell’altro, al di là dei confini culturali e politici imposti dai poteri di turno. A parte qualche accenno patriottico di cordata che tra le righe contiene, su cui benevolmente sorvoliamo, in breve ci spiega come l’italianità supposta di un’originalità etnica non abbia senso. Ce l’ha invece la specificità culturale e artistica che ha sempre caratterizzato questo nostro lembo di terra a forma di stivale.
L’Italia non è mai stata un unico popolo rimasto integro, mentre è sempre stata luogo di scontro e d’incontro di popoli, lingue, culture ed etnie diverse, che quando sono riuscite a convivere sono anche riuscite a produrre quella bellezza e quelle meraviglie che ci distinguono e tutti ci ammirano. Politicamente frammentata fino praticamente all’unità d’Italia risorgimentale, è sempre stata composta di tante frazioni e comunità di varie dimensioni. Comuni, signorie, stato del Vaticano, per citare ciò che è più noto. Fin dai tempi dei romani, anzi della Magna Grecia, culla dell’occidente, ha sempre annoverato un insieme meticcio di popoli, razze e culture, che, seppur a fatica, a tratti hanno avuto la capacità e l’intelligenza di mescolarsi e di trovare un’unità culturale, a volte anche morale, che si produceva in opere d’arte, architettoniche e letterarie il cui valore non ha pari.
Com’è sempre stato, dunque, chi nasce in Italia e lo desidera, indipendentemente che la sua provenienza genetica sia africana, asiatica, barbara, rossa, nera, o quant’altro, deve avere il diritto di essere pari cittadino e essere umano riconosciuto come tutti noi che ne facciamo parte da qualche generazione. Chi è contrario a ciò, perché ancora convinto di una purezza italiana di origine, nei fatti e nella storia inesistente perché fra l’altro siamo sempre stati occupati più o meno da tutti coloro che sono “sbarcati” sul nostro suolo, è contrario al buon senso e a un’idea di libertà e civiltà che ingenuamente pensavo non dovesse mai più essere messa in discussione.
Andreapapi

Dall'arte e dalla cultura nasce il nostro ius soli  

19 agosto 2016
 
Burkini e libertà
Dopo i provvedimenti di Nizza che proibiscono di portare il burkini, costume che copre integralmente indossato dalle donne musulmane per nascondere anche sulla spiaggia il proprio corpo, impazzano la polemica, a volte il dibattito, con toni più o meno esarcebati.
Personalmente trovo interessante tutto questo dibattere intorno a un fenomeno che appare di costume, non tanto per ciò che si dice, quanto perché mette a nudo le mentalità e i modi di essere con cui si affrontano questioni inerenti al come ci si propone nelle relazioni sociali. E mi sembra di accorgermi che anche nel cuore dell’occidente, da noi, che sbandieriamo di esserne i campioni, il problema della libertà non è ancora stato digerito come meriterebbe, nonostante l’Illuminismo, la Rivoluzione Francese, le lotte di emancipazione e per i diritti civili.
Dico questo perché ciò che salta agli occhi è il metodo, innanzitutto, con cui si affrontano questioni così delicate. Metodo, purtroppo interiorizzato e generalizzato, come visione delle cose e approccio sostanziale ai problemi. Detto in breve, si vuol combattere un’aberrazione con procedimenti e prassi che, all’atto dell’applicazione, rischiano di diventare altrettanto aberranti.
Chiarisco subito che a me non piace e, se possibile, contrasto ogni obbligo o divieto che s’impone per regolamentare dall’alto i comportamenti e le scelte di vita degli esseri umani, quando questi, ovviamente, non rappresentino un pericolo per l’incolumità e la libertà degli altri. Sono contrario perché non solo non risolvono mai il problema, mentre rischiano di esacerbarlo perché non permettono agli individui di gestire il proprio cambiamento, soprattutto perché innestano facilmente delle reazioni che alla fine allontanano dalla possibilità di soluzioni adeguate. Come si dovrebbe aver capito, sono in completo disaccordo coi provvedimenti legislativi che proibiscono di portare il burkini.
Allo stesso tempo però non sto in alcun modo dalla parte del burkini, che considero un prolungamento della cultura androcratica che contraddistingue l’approccio culturale che hanno “alla fonte” più o meno tutti i regimi e le comunità che si rifanno all’islam. Lo considero un’aberrazione, come il burqa, al pari del chadri o del paranja, o qualsiasi altra usanza vestiaria femminile che impazzano in varie maniere in tutti paesi islamici. Sono un’aberrazione perché lo è innanzitutto il presupposto culturale da cui nascono, che cioè la donna è inferiore in quanto genere, diremmo qui da noi, e va sottomessa e convinta a farsi sottomettere secondo modi e usanze stabilite e imposte dal genere maschile che s’impone e la sottopone.
Intendiamoci bene. Non sono passati poi tanti decenni da quando anche da noi i costumi e gli usi diffusi nei confronti delle donne mostravano eccessi e violenze per un bisogno accreditato di sottomissione considerandole inferiori. Così come pure in Cina, in India e più meno in ogni parte del mondo. Ovunque purtroppo, il germe malefico della prevalenza di potere androcratico, in vari modi e con diversi usi e costumi, ha umiliato, sbeffeggiato, violentato, mortificato le donne, assoggettandole non raramente in modo brutale. Pure da noi, dove fortunatamente ondate femministe hanno portato nuovi respiri di libertà oltre le differenze imposte di genere, l’accanimento nei confronti delle donne fa molta fatica a dileguarsi e si protrae anche quando è perseguito per legge.
Con l’islam il problema non è solo questo, perché per loro non si “limita” ad essere soprattutto fenomeno di costume, come più o meno ormai si trascina da noi. Nei paesi gestiti a livello dell’islam è shariʿah, o sharia, cioè legge di dio, quindi ha anche un aspetto formale di tipo giuridico, perché ciò che vogliono e propongono, quando ci riescono impongono, è la teo/crazia, cioè la politica come esplicazione della religione di appartenenza. Nella loro visione del mondo non è contemplata la laicità, conquista puramente occidentale (ciò che sta avvenendo in Turchia in questo periodo è esemplificativo di ciò che sto dicendo).
Un tale fenomeno culturale diffuso e interiorizzato, com’è facile intuire, non può essere affrontato a suon di proibizioni e divieti, innanzitutto perché sarebbe vissuto come una dichiarazione di guerra, poi perché non serve in alcun modo a superarlo. Ciò che potrebbe servire, invece, sarebbe senz’altro il confronto, lo scambio culturale e il dibattito, anche feroce (sul piano delle parole) e fuori dai denti. Dovremmo riuscire a stanare le loro e le nostre contraddizioni, mettere a nudo i comportamenti e i modi di pensare ed essere, dare avvio a una poderosa ginnastica di esercizio della critica e dell’autocritica per dare avvio a un nuovo percorso, che veramente spiani la strada verso le libertà, della donna, dell’uomo e di tutti gli oppressi.
In proposito qui propongo due articoli che secondo me possono aiutare a cominciare ad osservare il problema senza farsi trascinare in moralismi fuori luogo e ad uscire dagli stereotipi.
Andreapapi
Polemica sul burkini...
Intorno al Burkini

   
21 agosto 2016
Aggiungo un’intervista ad Ahiida Zanetti, stilista che l’ha inventato (come da lei stessa affermato nell’intervista) e col burkini s’è arricchita e si arricchisce ampiamente, e un articolo di Giuliana Sgrena, scrittrice e giornalista del Manifesto che da sempre si occupa della condizione delle donne nell’Islam, la quale è favorevole al divieto di portare il burkini applicato in Francia.
Alla Zanetti faccio solo notare che non c’è libertà se posso solo scegliere tra il burkini o il burka, come sembra prospettare con le sue parole, mentre c'è se posso scegliere di non portare nulla di ciò che il maschilismo androcratico islamico prescrive per la donna.
Inoltre vorrei sottolineare una testimonianza riportata dalla Sgrena nel suo articolo, a mio avviso molto più eloquente di qualsiasi considerazione: «Noi non possiamo decidere nulla (matrimonio, divorzio, poligamia, eredità, etc.), è singolare che invece saremmo noi a scegliere di portare il velo» (o il burkini).
Andreapapi
Intervista ad Ahiida Zanetti
Giuliana Sgrena - Libertà non è il burkini

15 luglio 2016
 
Di fronte alle esplosioni razziste
Ovunque stanno montando tensioni razziste e xenofobe, negli ultimi tempi in modo particolarmente cruento negli USA, e armano le mani di un numero crescente di individui che si caricano d’odio e voglia di uccidere. Il nemico per costoro non è tanto chi fa un torto ma chi è diverso, per colore della pelle senz’altro, ma anche per tradizioni, costumi e imprinting culturale. L’immaginazione xenofoba e razzista attribuisce al presunto nemico colpe e torti di cui in realtà non è responsabile e con la sua delirante accusa alimenta il desiderio sadico di torturarlo, eliminarlo, massacrarlo. Oltre a soggetti fanatici facili all’esaltazione, succede anche a componenti delle forze di polizia, ad attivisti di estrema destra, a imprenditori potenziali schiavisti, a tutti coloro insomma che, di riffe o di raffe in qualche modo, hanno bisogno, bisogno malato s’intende, di attribuirsi presunte superiorità, ritenute di razza o di etnia, che giustificano la violenza contro chi è pensato e considerato inferiore.
Negli Stati Uniti d’America questa miscela dalle caratteristiche antropologiche è particolarmente esplosiva, supportata com’è dalla possibilità, protetta dalla legge, di procurarsi armi e proiettili di ogni tipo, che possono tranquillamente essere usati nei modi più disparati.
Odi di questo tipo sono ben radicati perché gli individui che ne soffrono sono stati educati a coltivarli, trasmessi di generazione in generazione. Purtroppo trovano ulteriore alimento e conferma nello stato generale di cose, che di per sé fa scaturire forme di rincrescimento esistenziale e spinge a identificare simboli su cui scaricare le frustrazioni che il contesto sociale continuamente genera. L’intensificazione esasperata delle disuguaglianze in atto, l’aumento della disoccupazione, i debiti che un numero crescente di persone è costretto a contrarre, emarginazione e esclusione sociale… et similia, sono indubbiamente fattori che amplificano il problema in modo incontrollabile.
Così, quando i problemi, soprattutto per come vengono percepiti, diventano irrisolvibili, generano catastrofi antisociali, a loro volta generatrici di conflitti civili cruenti facilmente degenerativi. In particolare in questi casi, la violenza rappresenta sempre uno sfogo potente per esorcizzare delusioni e avvilimenti che derivano dalle imposizioni contestuali. Invece di tentare di scagliarsi contro i potenti responsabili dello stato delle cose, la si dirige contro chi, per la sua evidente diversità, disturba il malefico tra-tran quotidiano che ci costringono a vivere.
Gli articoli che qui propongo offrono una riflessione in tal senso partendo proprio dagli scontri razziali scatenatesi negli States in questa prima parte di luglio 2016, particolarmente incendiaria. Una violenza devastante e feroce, si badi bene, inizialmente a senso unico da parte delle forze di polizia contro “persone di colore” (come li chiamano), cioè di origine afroamericana. Poi, per reazione e difesa, la violenza ha preso corpo anche nella popolazione nera, la parte che fino ad allora era stata solo costretta a subire,.
A Dallas dei cecchini hanno colpito degli agenti di polizia che presidiavano la marcia di protesta di giovedì 7 luglio nella città statunitense di Dallas. Cinque poliziotti morti e sei rimasti feriti. Seppur ampiamente giustificata, personalmente non ritengo che la rappresaglia, perché in questa forma si è manifestata la risposta violenta dei neri alla violenza altamente prevaricatrice della polizia statunitense, possa in qualche modo aiutare gli stessi neri a non subire più la loro secolare dipendenza. Una cosa è organizzarsi per rispondere in modo efficace, anche violentemente, alla loro sistematica violenza. Un’altra cosa è la rappresaglia. Cioè secondo la logica per cui se tu ne ammazzi un tot io contro di te faccio altrettanto, se non di più.
La guerra, perché di questo si tratta, a lungo andare non può che esser favorevole a chi detiene il potere, di cui è una tipica espressione, quando fra l’altro costruzione e invenzione di armi micidiali sono totalmente detenute da chi lo gestisce. Per elezione quello bellico è un terreno del tutto confacente al potere dominante ed è quasi impossibile che possa essere scalzato su quel terreno. Secoli di storia sono lì a dimostrarlo. Anche quelle poche volte che gli oppositori non sono stati sopraffatti o hanno vinto, si sono poi trasformati, sostituendo in ferocia il vecchio potere da cui si erano liberati, divenendo essi stessi molto simili a ciò contro cui erano insorti. Questa non è liberazione, ma sostituzione di ruoli.
Razzismo e xenofobia, per la natura che li contraddistingue, non possono essere abbattuti semplicemente attraverso sforzi bellici o con l’uso di risposte meramente violente, che al limite riescono soltanto ad attenuarne il manifestarsi. Momentaneamente sopite, non appena se ne presenterà l’occasione risorgeranno poi quasi sicuramente con maggior veemenza. Soltanto un cambiamento radicale del modo di sentire e delle condizioni sociali che li alimentano possono risultare mezzi efficaci per superarli. Così, mentre sarebbe utile tenersi pronti a difendersi quando si è attaccati, bisognerebbe al contempo auto/educarsi vicendevolmente per predisporsi a non sentire a nostra volta in modo xenofobo e razzista per rispondere ad essi, oltre a cominciare a mettere in piedi reti di sperimentazioni per la diffusione di alternative sociali, il cui sostrato di tendenza e culturale dovrebb’essere il superamento libertario dello stato di cose presente.
Andreapapi
 
Così resistono i ghetti d'America
Nel ghetto della città in fiamme..."Ci addestriamo alla guerra"
Intervista a Woody Allen
   


10 aprile 2016
Chiesa e amore – Amor dei e amor profano
Francesco papa, il “grande innovatore”, si è espresso. Com’è nel suo stile da quando si è insediato tra le sacre mura di Roma, da papa qual è ha fatto una grande concessione. Nella sua ultima Esortazione Apostolica Amoris Laetitia concede anche ai divorziati risposati di ricevere il sacramento della comunione. Non è più possibile – vi scrive – dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale. … È possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa. Com’è buono lui! Però, seppur la persona omosessuale … va rispettata nella sua dignità, con la cura di evitare ogni marchio di discriminazione … non esiste fondamento alcuno per stabilire analogie tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio su matrimonio e famiglie.
Ascoltando o leggendo queste parole del più importante tribuno ecclesiastico vivente, mi viene spontaneo ripensare al noto motto galileano Eppur si muove!, detto al termine del processo inquisitorio e riferito alla terra. Qualcosa certamente si muove dentro la chiesa, ma la fatica sembra immane. Pur col suo efficacissimo linguaggio amorevole cui ci ha abituato e pur con significative concessioni morali al sesso e alle sue “devianze”, questo pontefice così pieno di “buona volontà” ha ribadito la immoddificabilità della chiesa cattolica in merito alla famiglia. Amore e sesso sono “doni di dio”, ma devono essere precettualmente consumati entro il matrimonio tra un uomo e una donna.
La giurisdizione resta invariata. Questo disegno, ci assicura “voluto da dio”, dev’essere per tutti, anche per chi non crede e non ci si riconosce. Che si sia credenti o no, devoti o no, bisogna fare come lor signori credenti ritengono giusto e opportuno. Chi non è sposato secondo i canoni voluti dalla chiesa non può godere degli stessi diritti di chi vi si riconosce.
Allora chiedo a gran voce: dov’è lo stato laico? dov’è l’applicazione del principio liberale “libera chiesa in libero stato”, che dovrebbe sovrintendere alle scelte politiche e civili che riguardano tutti i cittadini? Evidentemente sono solo parole, usate furbescamente dai poteri costituiti per tentare di tenerci a cuccia sottomessi, come del resto è l’intera azione politica che ci sovrasta e sceglie per noi in nome nostro. Purtroppo evidentemente funziona, perché in linea di massima mi sembra che più o meno una gran maggioranza stia veramente a cuccia.
Andreapapi

 
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